3/07/22

Odessa - 'L'alba della civiltà'



Line-up:

Lorenzo Giovagnoli (voce, tastiere)

Giulio Vampa (chitarre)

Valerio de Angelis (basso)

Marco Fabbri (batteria)


Guest: Gianluca Milanese (flauto)

 

 Il CD si apre e si chiude con due brani "eterei" ("La stanza del figlio" e "Nell'etere") e nel mezzo c'è una cover dei Pooh molto importante: "L'Anno, il Posto, l'Ora" nella versione che i Pooh ne fecero dal vivo nel 1972 (ma sull'album - Parsifal - finì la versione meno rock e meno prog), e impreziosita da adornamenti e richiami molto belli a firma Lorenzo Giovagnoli. Per il resto, L'alba della civiltà offre una gamma di brani hard prog - di ottima fattura compositiva - come li conosciamo dagli altri due dischi della band marchigiana.


Alcuni link:

Odessa su "HearNow"  

           Odessa su Spotify 

  Odessa su Facebook  OdessaZone

   --- e su Youtube



Ritratto di Lorenzo Giovagnoli (Odessa)




L'album era stato già preannunciato sul nostro blog in questi articoli:

      Lorenzo Giovagnoli (Odessa) 

      'Stazione Getsemani' (Odessa)

      Come annunciato... 'L'Alba della Civiltà' (Odessa)

       Odessa: sta per uscire il terzo album! ('L'alba della civiltà')



I brani:

"La stanza del figlio". È un'apertura in tono minore, breve e meditativa, forse a voler introdurre il flauto, elemento importante di questo terzo album degli Odessa: è suonato da Gianluca Milanese, il quale già collaborò all'esordio Stazione Getsemani (1999).


"Invocazione": quasi brusco cambio di atmosfera. Brano sostanzialmente in uptime che a un certo punto ci offre, a sorpresa, una parentesi morriconiana, prima di riprendere quota tra gorgheggi/vocalizzi à la Demetrio Stratos. Ha una bella coda, che si interrompe di botto...


... per lasciare posto alla dolcissima, struggente "Di buio e luce". Trattasi della "parte 2", essendo questa la "continuazione", o meglio la reprise, della "Di buio e luce" già apparsa in Getsemani. Qui Giovagnoli e i suoi sono al meglio delle loro possibilità: melodia in tempo relativamente moderato e abbellita da un flauto in gambissima e una chitarra formidabile, prima di salire di ritmo. Semplicemente stupendo, il tutto. Si merita di essere suonata da tutte le emittenti radio che trasmettono musica di livello alto-altissimo.


"L'alba della civiltà": pezzone! Rock mediterraneo con ascese quasi verticali e vertiginose discese, un buon ritmo, e melodia che si aggancia alla memoria. Interessante, come al solito, il testo. A tratti il brano è jazzato e dunque richiamante anche il suono di Canterbury. Buona inventiva di tutti gli strumenti, flauto e tastiere in primis. Armonie vocali perfette, basso a drums attenti e puntuali.


"L'organista del bosco": sorprendente, bucolico ed eccentricamente folk come possono esserlo i Jethro Tull. Quasi inaspettata passeggiata strumentale in un ambiente e in una situazione semifiabesche. Ma non manca nemmeno qui l'"acidità" e l'hardness - nella giusta dose - degli Odessa. Bellissimo. Gradevole. Intelligente. E complimenti davvero al flautista, Milanese.


"L'Anno, il Posto, l'Ora 1972": il clou, probabilmente, di quest'album; il brano che spingerà L'alba della civiltà fin negli apparecchi riproduttori di molti amanti della musica (e non solo fans dei Pooh!). Il vero colpo di genio di Lorenzo Giovagnoli.


"Rasoi": questo è il pezzo che si sarebbe meritato di aprire l'album. È - di nuovo - un rock mediterraneo che a tratti ricorda la P.F.M. ma che ha anche l'energia hard rock che spesso caratterizza questo gruppo. Possiede le progressioni giuste; e la voce di Giovagnoli è in grande spolvero. Inoltre, all'organo sembra quasi di sentire Jon Lord (Deep Purple)...


"Nell'etere": la chiusura, tranquilla, è un calare il sipario in maniera rappacificata e rappacificante. Quasi zen.


Per ordinare: Lizard Records

      eMail Loris Furlan:  lizardopenmind@yahoo.it


eMail Lorenzo Giovagnoli: giovlor71@gmail.com




Dell'uscita dell'album avevamo già parlato qui:

 Odessa: sta per uscire il terzo album! ('L'alba della civiltà')

      Lorenzo Giovagnoli (Odessa) 

      'Stazione Getsemani' (Odessa)

                               Come annunciato... 'L'Alba della Civiltà' (Odessa)

       


3/03/22

'A Trick Of The Tail'

   Genesis - A Trick Of The Tail (1976)


Terminata l'epopea dell'arcangelo Gabriele, i Genesis ci offrono, alla prima prova senza Peter, A Trick Of The Tail (traducibile con: "Il colpo di coda"), un album da molti atteso apposta quasi solo per poter subito dire che sì, “era inevitabile questo tracollo dopo l'uscita di Peter Gabriel”. Le aspettative dei pessimisti vennero tradite: il disco rimane molto al di sopra della media, assestandosi nel perimetro di una professionalità musicale di carattere 'progressive'; e ciò in un'era e in una situazione di mercato dove appariva superata per sempre la stagione d'oro del prog-rock.
Questo disco consegnò al pubblico le coordinate di una nuova definizione del genere “rock romantico”, prima dell'alluvione dance che avrebbe caratterizzato gli Anni '80. Non fu affatto male, in quello scorcio temporale, tale uscita abbastanza fedele ai canoni del prog sinfonico; e, anche ascoltandolo oggi, A Trick Of The Tail mantiene tutte le sue qualità artistiche.
I brani sono particolarmente narrativi, con un tratto immaginifico ed epico. E, in talune parentesi strumentali (sorta di promenade nelle pieghe della fantasia), indubbiamente si riscontrano soluzioni di grande fascino - unitamente a quell'intensità estetica che i Genesis ci hanno elargito generosamente. 






La band, alla quale il pubblico italiano aveva tributato affetto e rispetto per la bella ricerca musicale con temi tendenti alla surrealtà, nella confezione del disco vollero aggiungere tutti i testi in inglese e - nel caso specifico dell'Italia - le relative traduzioni nella nostra lingua: una sorta di tributo ai fan, un segno di riconoscenza, di gratitudine. Ciò venne assai apprezzato. E, anche per questo, alcune canzoni ci si sono impresse in mente e nel cuore in maniera indelebile.
Altro aspetto positivo dell'album: la struggente bellezza della copertina. L’artwork, ideato e realizzato da Colin Elgie per conto della celebre agenzia Hipgnosis, appare in tutto il suo carattere vittoriano. Nella forma e rappresentazione, abbiamo qui un bel pezzo di teatro ottocentesco (alcuni critici hanno pure fatto riferimento ai romanzi di Charles Dickens...): sul "palco" si avvicendano figure e personaggi dalle ricche sfumature caratteriali, tutti intenti a rendere la condizione della loro esistenza.

(La Hipgnosis e Colin Edge sarebbero stati responsabili anche per l'artwork del successivo Wind & Wuthering.)

Nella forma grafica, che si rifà alle illustrazioni dei vecchi libri per ragazzi, troviamo: la premurosa crocerossina abituata a lavorare nei reparti ospedalieri anche nottetempo; il fauno che si aggira danzante su zampe caprine e con coda irriverente; un'ingobbita vecchina che si osserva allo specchio mentre gli occhi della sua memoria la rendono di nuovo giovane; il malandrino grasso e mascherato che se la ride pur se è ben conscio che il suo destino è di venire catturato e rischiaffato in cella; i giovani e ingenui fanciulli tutti presi dai loro ideali e che vengono raggiunti in volo da un loro compagno che li cosparge di polvere di stelle. E inoltre: notai arcigni, bracconieri spavaldi, becchini smisuratamente ingordi, spettrali folletti...
Le nuvole sospinte dal vento sono come destrieri che, al galoppo, superano la falce lunare. E poi c'è Squonk, l'essere simile a un topo che, data la propria bruttezza, piange di continuo.




Tanta fantasia. La musica è stupendamente genesisiana: tuttora colma delle estasi barocche tanto amate dagli aficionados della prima ora. Il tutto condito con qualche stilla di riferimenti a eventi attuali.
Un disco da conoscere e conservare. E da riascoltare, per rinverdire ogni volta il piacere e l'amore per una band che ci diede e ci dà tantissimo.

Queste le otto tracce:
“Dance On A Vulcano” - “Entangled” - “Squonk” - “Mad Man Moon” - “Robbery Assault The Battery”, “Ripples”, “A Trick Of The Tail”, “Los Endos”."




2/09/22

La magia della Premiata

 Il 20 dicembre 1972, durante un concerto a Roma per la presentazione di Per un amico (loro secondo album dopo Storia di un minuto), la Premiata Forneria Marconi fu ascoltata dal bassista e cantante Greg Lake degli Emerson, Lake & Palmer (Greg, come sappiamo, suonò anche nei primi King Crimson), il quale, entusiasta, li portò a Londra alla sede della Manticore - label appena fondata appunto dagli E.L.P. -, al cospetto del paroliere e ispiratore dei King Crimson e in seguito produttore dei Roxy Music, Peter Sinfield.

Sinfield decise di scrivere i testi inglesi dei brani della Premiata Forneria Marconi e di produrli per il mercato internazionale. Pensò anche di ridurre il nome del gruppo in PFM, più facile da pronunciare per i non-italiani.
Uscì, per la Manticore, Photos of Ghosts.


In quel momento il gruppo era formato da:

    • Mauro Pagani – flauto, ottavino, violino, voce
    • Flavio Premoli – pianoforte, organo Hammond, mellotron, moog, voce
    • Franco Mussida – chitarra elettrica e chitarra acustica, voce
    • Giorgio Piazza – basso
    • Franz Di Cioccio – batteria, percussioni







Oggi la PFM suona così (clicca sul video sottostante). Rimasti sulla tolda di comando solo Franz Di Cioccio e Patrick Djivas (quest'ultimo entrato nel gruppo nel 1973 in vece di Giorgio Piazza), sono sempre attivi 'live' - Covid permettendo - con una riproposta delle canzoni di De Andrè. Nel 2021 hanno lanciato un nuovo album in studio: I Dreamed of Electric Sheep, chiaramente riferentisi a un celebre racconto dello scrittore di fantascienza Philip K. Dick.
Fantascienza: tecnologia spinta al massimo, androidi, viaggi interstellari... Nulla di strano, dunque, che i brani non abbiano la qualità cameristica degli esordi, bensì siano pieni di riverberi, echi, atmosfere spaziali.
Questo "If I Had Wings" porta anche la firma di Luca Zabbini (bravissimo frontman dei Barock Project).


Segue un altro brano tratto da I Dreamed of Electric Sheep / Ho Sognato Pecore Elettriche. Il doppio CD (uno con le canzoni in lingua inglese, l'altro in italiano) sottolinea l'ambizione della Premiata di continuare a mirare a un pubblico internazionale, anche perché il precedente Emotional Tattoos ha risvegliato un certo interesse per la band. Non è più la P.F.M. di Pagani, Premoli, Mussida (quest'ultimo ha abbandonato nel 2015), ma la qualità musicale è non indifferente... nonostante certe debolezze nei vocals (tranne quando a cantare è qualche ospite d'eccezione).


Negli Anni Settanta i membri della Premiata erano capaci di sfornare simili pezzi, che facevano davvero pensare che non ci fossero limiti all'inventiva: "Is My Face on Straight" (da L'isola di niente).






Molti di noi sono cresciuti con la PFM (chiamatela così, o chiamatela Premiata, o scrivete il loro nome con i puntini, "P.F.M."... è lo stesso). Che dire? Il loro catalogo, per quanto questi straordinari musicisti siano da inquadrare preminentemente nel progressive rock, è assolutamente ampio ed eclettico. 
Prendiamo una loro opera minore e forse meno nota come PFM in Classic. Come ha scritto qualcuno: "Qui il sublime si trasforma in musica". I componenti della PFM hanno una tecnica straordinaria e... esperienza da vendere. Ma, anche a voler dimenticare l'ingegneria sonora, la fatica che ci vuole per acquisire tanta abilità tecnica, e volendo dimenticare le sigle e le facili classificazioni, rimane una cosa sicura e straordinaria: la poesia della mediterraneità. È ciò infatti che la PFM, insieme a qualche altro gruppo italiano, porta nel mondo.



'Da Mozart a Celebration' ovvero PFM in Classic è un doppio CD (e un triplo vinile da collezione) che afferma come tutta la musica- al di là delle classificazioni in generi - sia gioia assoluta.
Dopo 5.000 concerti (!) e forte di un'enorme esperienza in tutto il mondo, la Premiata sente il bisogno di tornare dalla "grande madre" e riabbraccia la musica classica.
L'esecuzione dei brani in quest'opera si avvale di una riduzione della partitura originale, con inserimenti di musica creata ad hoc dalla stessa PFM.
Gli autori scelti: Mozart, Verdi, Saint Saens, Prokofiev, Rossini, Dvorak et alia. Tanta diversità compositoria ha permesso alla band di lavorare su un'ampia gamma, di usare più linguaggi - dal linguaggio colto al popolare -, con l'accompagnamento di un'orchestra davvero in forma (ma spesso a volte è il nostro gruppo rock a fare da accompagnamento agli orchestrali!). 
La svolta per il progetto avvenne vicino a Roncole di Busseto, con l'esecuzione dell''Ouverture' del Nabucco di Verdi con un quartetto d'archi. 
Quella rilettura, ricca di sfumature blues, accese l'entusiasmo del pubblico verdiano, tanto che, finita l'esecuzione, volle riascoltarla immediatamente una seconda volta. 
E così è sorta l'idea per questo corposo e interessante... ed è ancora magia marca "Premiata Forneria Marconi".




Rituffiamoci ancora una volta nel pentagramma "classico" della Premiata ascoltando questo Un amico (facente parte della collana 'Il suono del tempo'; è il disco secondo).

Oltre cinquant'anni di attività...


 Uno pensa: "Wow, sto guidando un'Isotta Fraschini..."

Poi scopre che questa macchina elegante, antica, monta un motore Ferrari. Ed è: "Doppio wow!"
Il Live in Roma della P.F.M. con Ian Anderson in qualità di special guest.
---> Parte I

È un'automobile classica.
Ma va più veloce di certi modelli nuovi.
Sono la Premiata Forneria Marconi.
Il Live in Roma (2012) con Ian Anderson.
---> Parte II






2/08/22

Quando i Van Der Graaf Generator scoprirono l'Italia

 --- dopo che l'Italia aveva scoperto loro


 8 febbraio 1972



Nel 1971 uscì il disco considerato da gran parte dei critici il miglior lavoro della discografia dei Van Der Graaf Generator e uno dei punti cardine del progressive: Pawn Hearts. L'album ebbe notevole successo soprattutto in Italia, dove rimase nelle top ten per 12 settimane. Anche il singolo "Theme One", uno strumentale originariamente composto da George Martin nei primi Anni Sessanta, registrò un notevole successo, occupando il primo posto della nostra hit parade. 

    

Quando la band arrivò in Italia preparandosi per una serie di show (prima tappa a Milano, l'8 febbraio 1972), trovò, a sorpresa, un'accoglienza fuori dal comune. Tutto è raccontato stupendamente in Van der Graaf Generator – The Book, di Jim Christopulos e Phil Smart.  




Nel febbraio 1972 si teneva quindi il primo tour italiano dei Van Der Graaf Generator.
La band era formata da:

    Guy Evans, Hugh Banton, Peter Hammill e Dave Jackson


 Epoca di concerti straordinari






Ebbero cosi tanto successo che ne fecero subito un secondo, di tour: a maggio dello stesso anno.
Come successe con i Genesis, il pubblico italiano "adottò" i VDGG, nominandoli tra i loro beniamini.
Già ad agosto si sarebbero sciolti... ma questa è un'altra storia.

   Le date della prima tournée italiana dei VDGG:


08 FEB 72 Italy, Milan, Teatro Massimo (2 shows)
09 FEB 72 Italy, Rome, Piper Club
10 FEB 72 Italy, Turin, College Club (2 shows - 4pm and 9pm) 
11 FEB 72 Italy, Reggio Emilia, Fifty Fifty Club
12 FEB 72 Italy, Novara (Prato Sesia), The Pipa
13 FEB 72 Italy, Verona (San Martino Buonalbergo), Lem Club (2 shows)
14 FEB 72 Italy, Florence, Space Electronic
15 FEB 72 Italy, Ravenna (Lugo di Romagna), Hit Parade Club (2 shows)




   Van Der Graaf Generator - Rare live concert. Brescia 1972

   Van Der Graaf Generator live in Italy 1972
 (rare recording) - "Aquarian"


 

 Peter Hammill

Comprate Van der Graaf Generator – The Book, di Jim Christopulos & Phil Smart! È pieno di pagine entusiasmanti...



Dunque, l'8 febbraio 1972 i Van der Graaf Generator si stavano preparando al loro primo show in Italia dove, senza che lo sapessero, erano considerati delle superstar. Dal libro Van der Graaf Generator – The Book:

La loro prima avventura italiana era basata su un tour di otto giorni. I musicisti non si attendevano nulla di straordinario, perciò furono sbalorditi nell'apprendere che sia Pawn Hearts che "Theme One" troneggiavano nella hit parade italiana! Maurizio Salvadori: questo il nome del promoter che aveva lavorato senza pausa per conto della band. Quando i VDGG toccarono territorio italiano, si scoprirono essere delle star! I loro concerti vedevano platee di migliaia di fans urlanti e, cosa più sorprendente, si trattava di gente in perfetta confidenza con ogni singola canzone e ogni singola nota suonata dalla band.  
"Eravamo strabiliati" si ricorda David. "A iniziare dall'aeroporto. C'erano, in effetti, delle persone che aspettavano all'uscita del terminal, sventolando bandiere. 'Per chi sono le bandiere?' chiedemmo. Ci spiegarono: 'Per voi. È perché siete venuti in Italia.' 'Cooosa?' facemmo, guardandoci al di sopra delle spalle. 'Ma no!' pensavamo, 'devono essere lì per qualcun altro...' (Ride.) Il tutto faceva davvero paura perché non potevamo raggiungere il luogo del concerto mentre c'era tanta gente pronta a vederci suonare. Mi ricordo mezzi motorizzati dell'esercito e polizia in assetto antisommossa... la situazione era seria. Credo che in certi teatri vendettero tutti i biglietti e anche più di quanti avrebbero dovuto venderne, perciò il pubblico rimasto escluso era andato fuori di testa."
"Fummo colti di sorpresa" conferma Hugh. "Maurizio Salvadori ci disse che il nostro album era al primo posto e la voce si era sparsa ancora. La nostra prima gig, a Milano, ci vide dare due concerti, e non potevamo lasciare la sala del teatro perché fuori c'erano i disordini. Era tutto stravenduto e i militari sparavano fumogeni e gas lacrimogeni a queste migliaia di persone che erano deluse per non aver potuto ottenere un biglietto Era caos puro. In vita nostra non avevamo mai veduto nulla del genere."
"Era sbalorditivo", afferma Guy. "Raggiungemmo il teatro per fare lo show del primo pomeriggio ma trovammo l'edificio circondato dagli agenti dell'antisommossa, schierati spalla a spalla. Migliaia di persone premevano per entrare. Suonammo, e dal pubblico avemmo un riscontro... estasiato. E poi ci fu il concerto serale, e intanto l'intera situazione raggiungeva il culmine. Ci fu una rivolta su vasta scala con gas lacrimogeni e tutto. Ricordo che salii sul tetto del teatro, da dove guardai giù, verso questa folla..."
"[L'Italia] fu il Paese dove avemmo grande successo" raccontò Hammill alla KNAC [una stazione radio del Sud della California ]. "Ci arrivammo al momento giusto, tanto per cominciare. Ci meravigliò non poco trovare una simile accettazione, che finora non avevamo avuto da nessuna parte. Certo, avevamo i nostri fans fedeli e c'erano sempre abbastanza visitatori nei nostri concerti - nei concerti veri. Ma da nessuna parte ci eravamo imbattuti in un pubblico tanto capace di entusiasmo. Il pubblico italiano ci fece sentire dei Grandi. E fu straordinario provare sensazioni del genere, una volta tanto..." 

Van der Graaf Generator – The Book ha venduto già tutte le copie in cartaceo, ma è sempre disponibile in versione digitale su Amazon




 












2/01/22

"Come back, Martin Barre!" Recensione di 'The Zealot Gene' (Jethro Tull)

 


side one:
Mrs Tibbets 0:00
Jacob’s Tales 5:54
Mine Is the Mountain 8:07

side two:
The Zealot Gene 13:48
Shoshana Sleeping 17:44
Sad City Sisters 21:25

side three:
Barren Beth, Wild Desert John 25:07
The Betrayal of Joshua Kynde 28:46
Where Did Saturday Go? 32:53

side four:
Three Loves, Three 36:46
In Brief Visitation 40:16
The Fisherman of Ephesus 43:19


Per certi versi è una delusione, davvero. Voce debole, soprattutto per un'immersione nel discorso biblico; strofe ripetitive (parliamo delle note, non del testo) e... niente Martin Barre! Fondamentalmente, questa è la Ian Anderson Band con il nome "Jethro Tull" appiccicato sopra.

Tutti i brani sono in mid-tempo, senza geniali invenzioni, senza sorprendenti colpi di coda, e la voce di Ian... beh, è quella di un ultrasettantenne con problemi ai polmoni; e compressa in poche ottave, ormai.




Non scrivete nessun commento in calce all'articolo! Questo è il nostro parere: trattasi - probabilmente - di uno dei tre-quattro album peggiori che Ian Anderson abbia mai fatto! Dico "Ian Anderson" poiché i Jethro Tull (questi Jethro Tull) sono lui. Ripeto: nessuna replica, non la leggeremo! È l'opinione nostra personale; certo non incontrovertibile né carica di valore universale, ma di sicuro conta - almeno per Prog Bar Italia - come giudizio definitivo (dopo ripetuto ascolto dell'intero album).

Sia detto immediatamente che il prodotto non è proprio da buttare, ma manca di sicuro Barre per riavere il suono degli autentici Jethro Tull. Altro problema: il bassista. I JT hanno avuto tre fantastici bassisti: Glenn Cornick, John Glascock e Dave Pegg. Quello di questo album, David Goodier, non si dimostra all'altezza. Gli altri membri sono abbastanza bravi, con il chitarrista Florian Ophale (da Rosenheim, Baviera) che svetta su tutti. E l'altro uomo alla chitarra elettrica, Joe Parrish, è altresì eccellente e chi lo conosce sa anche che è un ottimo cantante: avrebbe dovuto, qui, ottenere molto più spazio... 

 Remembering...



I brani

                    1. "Mrs. Tibbets": Ian Anderson si riferisce alla madre del pilota che sganciò la prima bomba atomica su Hiroshima. Il nome del pilota era Paul Tibbets e la sua genitrice si chiamava Enola Gay Tibbets. La bomba venne battezzata "Enola Gay". Nonostante i gravissimi danni (sulla popolazione!) causati dalla terribile arma, i giapponesi non vollero arrendersi. Solo sei giorni dopo, quando gli americani sganciarono la seconda bomba, l'imperatore del Giappone e il suo Comando Supremo sventolarono bandiera bianca. 
                          2. "Jacob's Tales": una traccia solista di Ian Anderson; un usa-e-getta, un riempitivo. In passato, un simile brano non sarebbe stato nemmeno usato come lato B di un singolo. Ma di che cosa parla la canzone? Ce lo rivela lo stesso Anderson:
    “A parte il 'Giacobbe' del titolo, questo è un racconto di invidia e di gelosia - gelosia nel senso di rivalità tra fratelli. Esprime l'idea che fratelli e sorelle non sempre vanno d'accordo e che, quando si tratta dell'inevitabile passaggio di beni e tesori di famiglia, le cose possono... beh... degenerare. In questo come negli altri testi, ho preso un elemento dalla Bibbia come parallelo, come riferimento."
                      3. "Mine is the Mountain": non male! Dal punto di vista dei testi e anche musicalmente ricorda in qualche modo (il molto migliore) "My God". 
                        4. "The Zealot Gene": come musica siamo di nuovo a livelli alti, e il testo vuole essere un attacco all'ex presidente degli U.S.A. Donald Trump. "Lo zelota". Ma può essere anche interpretato come una critica verso altri personaggi politici fatti più o meno della stessa pasta di "Donnie".
                           5. "Shoshana Sleeping": il classico "sound" dei Tull. Il "bridge" non brilla per inventiva, però. 
                           6. "Sad City Sisters": vale il discorso di cui sopra. Traccia molto buona che sarebbe potuta essere ancora migliore se il chitarrista avesse potuto esprimersi maggiormente. La monotonia è un po' troppa.
                           7. "Barren Beth, Wild Desert John": decisamente, la traccia  dell'album da noi preferita.  
                           8. "The Betrayal of Joshua Kynde": molto vicino ai classici JT. La seconda traccia migliore di questo disco? Sì, dài. I vecchi temi jethrotulliani vengono comunque abbozzati, in questo come in altri brani... anche se poi manca lo sviluppo, il colpo di genio compositivo.
                             9. "Where Did Saturday Go?": brano solista di Anderson (con lui che suona un bel basso): ricorda alcune celebri canzoni acustiche dei Tull.
                         10. "Three Loves, Three": altro "assolo" di Anderson. Discreto. Sarebbe risultato molto meglio con la band, che avrebbe potuto aggiungervi più sfumature e vivacizzarlo.
                          11. "In Brief Visitation": traccia quasi buona, con gradite aggiunte di chitarra elettrica e tastiere; mostra come avrebbe dovuto essere realizzato il pezzo precedente.
                           12. "The Fisherman of Ephesus": chiusura senza il botto, poco più che discreta.     

 Il 74enne Anderson



In conclusione, The Zealot Gene è un disco non pregevole ma buono / quasi buono. Pur rimanendo lontano dalla brillantezza dei migliori lavori dei Tull, non sfigura affatto accanto agli ultimi tre album in studio della band. (Che, lo ammetterete, non sono proprio eccezionali.) Per i fan di Ian Anderson e dei JT, è certamente un "must", anche se nessuno andrà in solluchero ascoltandolo. 

Anderson ha raccontato di avere già in mente il prossimo album dei Jethro Tull. Di aver addirittura iniziato a scriverlo...  
Speriamo bene!


Wobbler

Signori e signore... la band Wobbler!

                                    (Viene ora ripubblicato parte del loro catalogo...)


Da dove viene il nome? Dall'inglese to wobble (tremolare, traballare), wobbler (indeciso, insicuro; traballante).


I norvegesi si sono messi insieme nel 1999 con il proposito di ricreare le atmosfere del progressive rock Anni '70. Oltre ai King Crimson e ai Gentle Giant, tra i loro gruppi preferiti c'è la Premiata Forneria Marconi (semplicemente "PFM" al di fuori dei confini italiani), e si sente! Che il prog italiano sia un faro per molti gruppi odierni è ormai un segreto di Pulcinella. La creatività di tanti nostri complessi (anche il Museo Rosenbach è tra le influenze degli Wobbler) è, tuttora, un bene di esportazione italiano non indifferente; e sembra voler crescere esponenzialmente con il tempo, man mano che il rock progressivo torna sempre più in auge.
Se vogliamo parlare di indirizzi musicali, Wobbler (meglio lasciar via l'articolo!) si muovono più in direzione symphonic rock, differenziandosi dunque da quei gruppi vichinghi che - anche per motivi commerciali - si dedicano ai suoni più duri e quindi al metal prog (tipo Meshuggah, Opeth...). 

Ecco il brano di apertura dall'album del 2017 From Silence To Somewhere:




Negli inserti "bucolici", innegabili i richiami agli Yes e ai Genesis, oltre che al folk-rock marca Gryphon e dintorni.



La discografia wobbleriana si riassume in cinque album principali:

Hinterland (2005)
Afterglow (2009)
Rites at Dawn (2011)
Dwellers of the Deep (2020)

Nonostante la relativa stringatezza della loro produzione (ma abbiamo tralasciato qui di inserire i single, gli EP, i promo), il quintetto norvegese è assurto ai fasti di una popolarità senz'altro meritata, tanto da essere stato invitato a varie manifestazioni internazionali. Furono presenti anche al Defrag, in quel di Roma, nel 2018.



Qui nel 2020


Fin da Hinterland (loro primo album), nella musica di Wobbler troviamo spesso il flauto, il clavicembalo... oltre alle immancabili tastiere elettroniche.









* Le re-issues del 2022 *

(I primi tre album, inseriti in un Box-Set

Wobbler: 'Afterglow' (2009; re-issue: 2022)


Pubblicato per la prima volta nel 2009 e ristampato nel 2022, l'album dei Wobbler 'Afterglow' è ciò che per molti conoscitori del progressive rock rappresenta l'essenza del genere. L'album è dominato da lunghe composizioni in cui la band esplora il rock progressivo sinfonico in una serie di fasi e orientamenti diversi, che vanno da passaggi romantici carichi di atmosfera fino a movimenti duri ed energici e a fughe bizzarre e stimolanti. Caratteristica costante sono gli elementi di musica folk, che hanno spesso un tocco medievale, e i dettagli vengono messi in risalto meglio nei brevi intermezzi carichi di intensità.
'Afterglow' è un album che è stato molto amato al momento della sua prima uscita e si presenta solido e "timeless" oggi così come nel 2009.


Label: Karisma Records



Wobbler: 'Hinterland' (2005; re-issue: 2022)

Anche 'Hinterland' viene ripubblicato in questo 2022. Uscito nel 2005, il debutto dei Wobbler spicca per la sua "classicità" in mezzo alle produzioni moderne. Come altri lavori della band, 'Hinterland' è un omaggio al rock progressivo dell'era d'oro. In questo e nell'album successivo - 'Afterglow' - sarà Tony Johannessen a cantare; poi il microfono passerà a Andreas Wettergreen Strømman Prestmo.
Viene esplorato qui il rock progressivo sinfonico in varie sfumature e nei vari colori, con tastiere, organo e Mellotron in posizione centrale e sprazzi "heavy" ad aggiungere profondità, durezza e intensità all'opera. La narrazione si snoda in imponenti ed epiche composizioni che vanno da 12 ai 27 minuti... dopo un breve prologo di appena 42 secondi.
'Hinterland' fece presa sugli ascoltatori la prima volta e, rimettendolo in cuffia oggi, si può benissimo affermare che ha resistito alla prova del tempo.

Wobbler: 'Rites at Dawn' (2011; re-issue: 2022)

Altra "re-issue" di un disco dei Wobbler: 'Rites at Dawn', un "classico" della discografia di questi norvegesi amati anche in Italia. Qua i Wobbler sembrano volersi concentrare maggiormente sull'esplorazione dei diversi aspetti del rock progressivo sinfonico senza troppi elementi aggiuntivi. Ci sono sporadiche pennellate pastorali che infondono sfumature folk al 'corpus' musicale, nonché alcune sequenze che evocano umori e atmosfere mistiche e spettrali; ma è il prog sinfonico dell'era classica - mai lineare, sempre pronto a stupirci - a dominare la produzione.
Un album che conserva il suo fascino anche nel 2022.

Label: Karisma Records