12/03/25

Gentle Giant

 L’arte di essere contemporaneamente antichi e futuristici



Quando si parla di rock progressivo degli anni Settanta, i nomi che vengono in mente più spesso sono Genesis, Yes, King Crimson o E.L.P. (Emerson, Lake & Palmer). Eppure, esiste una band che, pur condividendo lo stesso decennio e la stessa ambizione enciclopedica, è sempre rimasta un passo laterale, quasi in un universo parallelo: i Gentle Giant.


Nati a Londra nel 1970 dalle ceneri dei Simon Dupree & the Big Sound (un gruppo pop-psichedelico che aveva avuto un hit inatteso con “Kites”), i Gentle Giant erano sostanzialmente tre fratelli ShulmanDerek (voce, sassofono, basso), Ray (basso, violino, chitarra acustica, voce) e Phil (sassofono, tromba, clarinetto) – più Gary Green (chitarra), Kerry Minnear (tastiere, vibrafono, violoncello, voce) e, nel corso degli anni, una serie di batteristi di altissimo livello, da Malcolm Mortimore a John Weathers.



Ciò che li rende unici non è tanto l’eclettismo strumentale in sé (c'erano altri gruppi prog i cui membri erano in grado di suonare venti strumenti diversi), quanto il modo in cui lo usavano: non per fare sfoggio fine a se stesso, ma per costruire un linguaggio musicale che sembrava sempre sul punto di sgretolarsi e invece teneva miracolosamente insieme.Ascoltare un loro brano tipico – “Knots”, “The Advent of Panurge”, “Playing the Game” o la suite “In a Glass House” – è come osservare un puzzle tridimensionale che si monta e smonta in tempo reale. Le voci si intrecciano in contrappunti madrigalistici rinascimentali (Minnear aveva studiato composizione classica al Royal College of Music), le ritmiche cambiano metro ogni tre battute, i timbri si sovrappongono in modi che anticipano di decenni certe cose di Frank Zappa o dei Mr. Bungle, ma con un’eleganza britannica che non scade mai nel puro virtuosismo semi-circense.

     
"Proclamation"


I testi, poi, sono un altro mondo. Derek Shulman era affascinato dalla letteratura, dalla filosofia e dal gioco di parole. Acquiring the Taste (1971) si apre con una dichiarazione di intenti quasi arrogante: «It is our goal to expand the frontiers of contemporary popular music at the risk of being very unpopular». E mantengono la promessa. Parlano di Rabelais, di Knots di R.D. Laing (psichiatria anti-psichiatria), di alchimia, di scacchi, di potere e di libertà individuale, sempre con un distacco ironico che li salva dal didascalismo di tanto prog.

   
"The Advent of the Panurge"

Dal punto di vista sonoro, i Gentle Giant sono la band prog più “polifonica” in senso letterale: ogni strumento ha una personalità, un ruolo melodico quasi costante. Non c’è quasi mai un accompagnamento “di servizio”. Il basso di Ray Shulman non fa solo groove, canta linee indipendenti; il vibrafono di Minnear non colora, guida; la chitarra di Gary Green passa senza soluzione di continuità dal rock al jazz al folk celtico. E, sopra tutto questo, le voci: controcanti a cinque-sei parti, spesso registrate senza overdub eccessivi, che suonano come un coro medievale finito per sbaglio dentro un amplificatore Marshall.



Il periodo d’oro va dal 1970 al 1975: sei album (Gentle Giant, Acquiring the Taste, Three Friends, Octopus, In a Glass House, The Power and the Glory) che rappresentano probabilmente il picco creativo del progressive britannico tout-court.







Poi, come quasi tutti i gruppi del genere, arrivano i compromessi: Free Hand (1975) è ancora eccellente ma più accessibile, Interview (1976) cerca (invano) la hit radiofonica, e dal 1977 in poi la parabola discendente è inarrestabile. L’ultimo album, Civilian (1980), è un onesto tentativo di AOR che però suona come una resa.

Eppure, paradossalmente, è proprio il loro rifiuto di fare concessioni facili che li ha resi un culto. Non hanno mai avuto una “The Court of the Crimson King” o una “Roundabout” che entrasse in heavy rotation. I loro concerti erano eventi per iniziati: partiture complesse, cambi di strumento continui, umorismo surreale (i famosi “giochetti” tra un brano e l’altro in cui si scambiavano gli strumenti o improvvisavano madrigali su richiesta del pubblico).



Oggi i Gentle Giant sono probabilmente la band prog più influente tra i musicisti e meno conosciuta dal grande pubblico. Li citano i Spock’s Beard, i The Flower Kings, ma anche band math-rock come Battles o post-rock come Sigur Rós (ascoltate “Cogs in Cogs” e ditemi se non sentite un antenato di certi loop di Jónsi). Mike Portnoy li ha sempre messi nel suo personal pantheon. Persino i Radiohead dei primi anni devono qualcosa al modo in cui i Giant trattavano la voce come strumento.



I tre fratelli Shulman, dopo lo scioglimento, si sono dedicati alla produzione e al management (Derek ha lavorato con Bon Jovi, Billy Idol, ecc.), ma nel 2004-2005 hanno autorizzato una reunion parziale (con Minnear e Green) sotto il nome “Rent-a-Giant” per qualche concerto celebrativo. Niente nuovo materiale, solo la conferma che quelle musiche, eseguite dal vivo nel 2020 come nel 1972, suonano ancora aliene.

I Gentle Giant non sono mai stati “piacenti”. Non hanno mai voluto essere amati facilmente. Hanno scelto di essere difficili, intricati, ironici, coltissimi e antidivistici. E proprio per questo, a distanza di oltre cinquant’anni, restano una delle esperienze più stimolanti e irripetibili che il rock abbia mai prodotto.Se non li conoscete ancora, iniziate da Octopus (1972). Poi preparatevi a un viaggio senza ritorno.

      "On Reflection"


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I Gentle Giant se la giocano con i King Crimson in quanto a virtuosismo... Ecco la loro discografia:


Con la Vertigo

1970 - Gentle Giant

1971 - Acquiring the Taste

1972 - Three Friends

1972 - Octopus


Con la WWA

1973 - In a Glass House

1974 - The Power and the Glory


Con la Chrysalis

1975 - Free Hand

1976 - Interview

1977 - The Missing Piece

1978 - Giant for a Day

1980 - Civilian


      
   

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