Infernal, degli americani Phideaux (stiamo parlando del progetto ormai stabile e di lungo corso di Xaver Phideaux), è suddiviso in quattro sezioni. Qui, l'album nel suo completo splendore.
Chi si approccia a questo album senza conoscerne la storia, ne riconoscerà subito le coordinate a prescindere: è rock sinfonico, progressivo, melodico. E, più si va avanti con l'ascolto, più si ha il dubbio se si tratti di un'opera rock invece che di un concept, per la varietà degli "attori" e il susseguirsi di cambi di vocalists.
È un grande album (suonato tra l'altro con un bel numero di strumenti vintage... vedi in fondo all'articolo) ed è giusto non solo parlare dei suoi contenuti, ma raccontarne anche la vicenda particolare.
Un assaggio dei primi tre brani
Noi di Prog Bar, occupandoci di prog-rock sia a livello di mera passione sia professionalmente, ci siamo imbattuti in diversi individui, appassionati del genere, che, raccolta ogni loro disponibilità e facendo sacrifici oltreché investendo gran parte del loro tempo, si sono fatti un "regalo" assembrando un gruppo di musicisti per stampare un full-lenght. Ma la storia del Julius Project le batte tutte. L'incipit risale al capodanno del 1978 - come già accennato in questo nostro primo articolo a proposito di Cut the Tongue.
>> Tutti i pezzi sono stati ripresi solo nel 2014, dopo trentatré anni di “sonno” nel cassetto. E subito si è posto un problema di ordine concettuale: se rispettare lo stile originale del 1978/81 oppure adattarlo all’attualità. Abbiamo scelto la prima soluzione, quindi siamo passati a costruire una prima struttura provvisoria e a definire gli arrangiamenti, per decidere “chi suona cosa e quando”. In seguito, il coinvolgimento degli artisti è stato progressivo. Abbiamo raccolto i diversi contributi man mano che c’era l’opportunità e la possibilità. Anche per questo il lavoro ha richiesto molto tempo. <<
(Da un'intervista rilasciata da Giuseppe "Julius" Chiriatti)
Cut the Tongue è un viaggio... come quello di Rael dei Genesis in The Lamb Lies Down On Broadway. Qui c'è l'alcool, ci sono le droghe, le corse clandestine... e il protagonista, Boy, arriva all'autodeterminazione per liberarsi dai "falsi profeti".
Per inciso, la voce di Boy è della figlia di "Julius", che, con il nome d’arte di Bianca Berry, canta la maggior parte dei brani.
Bianca Berry - lead vocal
Marco Croci - bass, lead & backing vocals
Filippo Dolfini - drums
Francesco Marra - acoustic, 12 strings & electric guitar
Mario Manfreda - 12strings & electric guitar
Paolo Dolfini - keyboards, backing vocals
Julius - keyboards, lead & backing vocals
Guest Stars:
Richard Sinclair - lead vocal
Dario Guidotti - flute, lead vocal
Daniele Bianchini - lead guitar
Flavio Scansani - 12strings & electric guitar
Egidio Presicce - sax
Martina Chiriatti - the prophet's voice
Lyrics and music: Giuseppe Chiriatti
Arrangements:Paolo Dolfini
Altro trailer
TRACKLIST:
The Fog (6:27)
In the Room (3:40)
You Need a Prophet (3:30)
Mask & Money (4:23)
Welcome to the Meat Grinder (3:10)
Speed Kings (3:33)
Clouds pt. 1 (3:06)
Clouds pt. 2 (4:45)
Cut the Tongue (5:06)
The Swan (2:17)
Island (1:56)
We Know We Are Two (2:06)
I See the Sea (3:07)
Glimmers (3:55)
Castaway (1:07)
Wood on the Sand (3:06)
Wandering (1:39)
Desert Way (2:53)
I titoli sono didascalici e ci suggeriscono già le immagini che "vedremo" gustando la musica, ma, sfogliando l'album, si scoprono talmente tante sfumature e dettagli in secondo e terzo piano che ci rendiamo conto che questo prodotto artistico, questo insieme di quadri progressive, è realmente composito, nasconde storie nelle storie; con la spezia del Fantastico, della surrealtà, che va a spruzzare i momenti anche più duramente reali di Boy.
Les Paul Mini Humbucker di Daniele Bianchini
Iniziamo a guardare i dagherrotipi. "The Fog" "entra" subito in "The Room" che a sua volta lascia il posto ai cattivi maestri pronti a traviare il protagonista ("You Need A Prophet", bel brano rock che ricorda i Roxy Music) e, tra fiati sognanti, tastiere decise e chitarre anche hard, passiamo da una canzone all'altra, da una scena filmica alla prossima, come fosse, davvero, una versione di Tommy che si sposa ad Arancia meccanica e a qualche altro grande mito della cultura pop degli Anni Sessanta-Settanta. L'italianità, tuttavia, è alquanto presente, malgrado i testi in inglese. I motivi dolci, le arie soavi, non mentono...
G. Chiriatti
Un sogno, dicevamo, che dura dal 1978-79, quello di Giuseppe Chiriatti, tastierista e compositore leccese. Nel 2019 "Julius" (è il suo nickname, per chi non lo sapesse ancora) scrive l’ultimo brano, quello che dà il titolo all'album, su liriche proprie risalenti a decenni prima. E, giusto in questa traccia centrale (la nona, delle diciotto che compongono la scaletta; e, decisamente, l'apice: è una composizione ben riuscita, suggestiva, perfetta, pari forse solo a "Island", a "Wood on the Sand" e a qualche altra), si è aggiunta la straordinaria collaborazione di Richard Sinclair. Sì, proprio lui: l'ex Caravan, Hatfield and the North, Camel... uno dei protagonisti della scena prog di Canterbury. È sua la voce in "Cut the Tongue".
È stato Paolo Dolfini, ex Jumbo, ad abbracciare entusiasticamente il progetto e a dare il via alla realizzazione, consapevole che coordinare un tale lavoro effettuato a distanza tra Lecce e Milano non sarebbe stato semplice. Inoltre, Paolo Dolfini suona le tastiere in diversi brani e ne cura gli arrangiamenti.
Chiriatti e R. Sinclair
I musicisti
(tredici tra membri della band e ospiti, sparsi fra la Lombardia e il Salento)
Chiriatti ha chiamato a collaborare innanzitutto una sezione ritmica composta dal figlio di Paolo, Filippo Dolfini, alla batteria, e dal bassista e cantante Marco Croci (ex Maxophone), che hanno costruito l’impalcatura intorno a cui si struttura l'intera opera. In seguito si sono aggiunti i contributi degli ex Jumbo Dario Guidotti (al flauto e alla voce) e Daniele Bianchini (chitarra), nonché del chitarrista Flavio Scansani. Ciò, per quanto riguarda la "squadra del Nord".
In Salento, invece, oltre allo stesso Julius alle tastiere e alla voce in alcuni brani, hanno contribuito alla realizzazione del disco Francesco Marra e Mario Manfreda alle chitarre, Egidio Presicce al sax, e Martina Chiriatti, l’altra figlia di Giuseppe, alla voce.
Da aggiungere c'è che Marco Croci interpreta in maniera convincente l'organizzatore delle corse clandestine, in "Speed Kings", sesto titolo di Cut the Tongue.
Ritratto: Richard Sinclair – voce solista in "Cut The Tongue", title track.
Fin da In the Land of Grey and Pink (Caravan, 1971), è un protagonista del rock progressivo melodico e canterburiano, anche grazie alla sua voce bassa e morbida. Si è detto entusiasta di cantare "Cut The Tongue", elargendo un ennesimo gioiello della sua arte.
Altro ospite d’eccezione: Flavio Scansani, chitarra solista e 12 corde in "Glimmers" e "Wandering". Una vita a studiare e suonare lo strumento. Al liceo fonda il suo primo gruppo, ispirato dal rock classico di Ten Years After, Santana, Deep Purple. Poi, l'incontro con il progressive. Concerti in giro per l'Europa, numerose collaborazioni anche con i grandi della musica leggera italiana. È stato Paolo Dolfini a coinvolgerlo nel progetto di Julius, Cut the Tongue.
Di nuovo un ospite di tutto riguardo: Daniele Bianchini, già chitarrista dei mitici Jumbo. Ha regalato una sua perla, suonando le chitarre nella title track "Cut The Tongue".
Bianchini mise le mani sulla sua prima chitarra nel 1961. Suonò con un paio di gruppi prima di iniziare la propria avventura nel mondo prog con i Jumbo (1969). Tre album in tre anni, tante esibizioni live, e i festival di Parco Lambro nel 1975 e 1976. Il gruppo si scioglie, per tentare di riformarsi nel 1983 - proprio su iniziativa di Daniele Bianchini - con qualche cambio nella formazione. Registrazione dell'album Violini d'autunno. Segue nel 1990, con Paolo Dolfini alle tastiere, un concerto a Parigi, dal quale venne prodotto un CD live.
Negli anni '80 Bianchini fonda il gruppo Moving Music Multimediality, nei '90 produce il CD Passing By, nei 2000 il DVD Jumbo Anthology e l'album solista Poche Parole. La sua attività continua con la band Tri-On...
STRUMENTI vintage utilizzati nell'album:Hammond Organ A122 (1964), Fender Jazz Bass (1966), Gibson Les Paul (1968), Gibson Les Paul (1972), Rickenbacker bass 4001 (1975), Minimoog model D (1976), Korg Lambda (1979), Wal bass mark (1984), Fender Staratocaster (1986).
In aggiunta ci sono ovviamente gli strumenti più attuali, quali (tra le tastiere) Mellotron M4000D mini, Moog Voyager, Kurzweil PC3, Nord Stage 2...
Pubblicato nel 1969 dalla Mercury, questo è risaputamente il primo album solista di Peter Hammill, ma non ci dispiace che il disco sia uscito sotto il moniker "Van Der Graaf Generator" poiché la band vale, eccome! (Anche se ancora priva del sax di David Jackson.)
Van der Graaf "Mark I", oltre a Peter Hammill al canto e alla chitarra acustica, vede la bellezza di: Hugh Banton alle tastiere, Keith Ellis al basso e Guy Evans alla batteria e percussioni.
The Aerosol Grey Machine, prodotto da John Anthony, è il risultato di sole 12 ore in studio e altrettante al missaggio. Qui il prog-rock è ancora in tutina da bambino, ma si sente già il "mostro" crescere: il sound complessivo - privo di overdubs e rifiniture - possiede già quella cupezza, quella serie di dubbi cosmici, quella crepuscolarità che si affermerà gloriosamente nei tre dischi successivi, usciti per la Charisma Records di Tony Stratton-Smith, primo vero grande supporter della band.
TRACCE
Tutti i brani sono composti da Peter Hammill, salvo il 6.
1. Afterwards – 4:55
2. Orthenthian St., Pts. 1 & 2 – 6:18
3. Running Back – 6:35
4. Into a Game - 6:57
5. Aerosol Grey Machine – 0:47
6. Black Smoke Yen (Hugh Banton, Keith Ellis, Guy Evans) – 1:26
7. Aquarian – 8:22
8. Necromancer – 3:38
9. Octopus – 8:00
Hammill
L'album, registrato nel 1968, uscì solo negli U.S.A. Per anni in Italia si nutrirono dubbi se questo lavoro esistesse davvero, Da noi Aerosol Grey Machine divenne reperibile solo nel 1974. Alcune registrazioni effettuate per la BBC offrono versioni alternative dei pezzi del primo periodo dei Van der Graaf Generator, con il basso del giovanissimo Nic Potter in evidenza.
In Aerosol, degne di nota sono la ballata "Afterwards" (solare, melodica, non troppo gotica e tutt'altro che dark-jazz) e "Necromancer", dove già ci si imbatte nel songwriting intriso di misticismo del carismatico frontman. Contiene anche brani quali "Running Back" e "Aquarian".
Viva Canterbury, che ci ha dato una grandiosa "scena" progressive e soprattutto quei formidabili avanguardisti di Robert Wyatt (batteria, voce), Kevin Ayers (basso, chitarra, voce), Daevid Allen (chitarra) e Mike Ratledge (organo)!
La miscela fermentò in locali londinesi dell'underground come l'UFO, lo Speakeasy e il Middle Earth in un periodo (il 1966-67) dove gli impulsi davvero non erano pochi. Nella capitale del Regno si segnalava tra l'altro la presenza di un certo Jimi Hendrix...
La Riviera Francese e in particolare la scicchissima e artistica Saint Tropez era a un tiro di sasso (la band, che ai suoi inizi era nota come The Wilde Flowers, si esibì in musica psichedelica per i ricchi e per gli sbandati che erano amanti dell'arte e delle novità) e la gratificazione per i Soft Machine (questo il loro nome definitivo... o quasi: più tardi si chiameranno The Soft Machine) sarebbe stato un posticino all'apertura dei concerti nord-americani di Hendrix (1968).
Allen, che era australiano ed ebbe problemi col permesso di soggiorno, intanto non c'era già più e, tanto per gradire, fondò a Parigi i Gong. Andy Summers (più tardi Police) prese il suo posto, ma nel primo album, The Soft Machine, già non c'era più neppure lui, su insistenze di Ayers che non lo poteva soffrire.
Quel disco, registrato durante il tour americano con la Jimi Hendrix Experience, venne realizzato con/da Wyatt, Ayers e Ratledge, e con l'aggiunta soltanto di Hugh Hoppers al basso in "Save Yourself" e del trio femminile di The Cake in "Why Are We Sleeping?" (brano di chiusura dell'album). The Soft Machine risultò un disco altamente sperimentale col suo mix di rock psichedelico, jazz e soft rock.
Kevin Ayers non parteciperà alla registrazione di Volume Two (1969), perché stanco della tournée americana (il cantante raggiunse Daevid Allen in quel di... Ibiza, dove entrambi si ricrearono e si ricomposero). Al posto di Ayers subentrerà Hugh Hoppers (sì, il bassista che collaborò a un track del debutto americano), mentre il nuovo cantante sarebbe stato Wyatt. Volume Two manca dell'enfasi "pop" di Ayers ed è più "dada" (almeno così leggiamo in diverse critiche di lingua inglese). Certo è che in questo prodotto si riconferma il genio di Robert Wyatt, il quale, ancora una volta, contribuisce alla grande in abiti da compositore: in pratica, tutti i brani di Volume Two sono suoi.
E arriviamo al 1970 e al leggendario Third, un doppio LP di cui ogni facciata contiene un'unica, lunga composizione.
In Thirdla formazione dei Soft Machine è la seguente:
Mike Ratledge –organo, sintetizzatore, piano
Hugh Hopper – basso
Robert Wyatt – batteria, voce, piano, basso
Elton Dean – sax alto, saxello
E in più:
Lyn Dobson – sax soprano, flauto
Jimmy Hastings – flauto, clarinetto basso
Rab Spall – violino
Nick Evans – trombone
Il medesimo quartetto (Wyatt, Hopper, Ratledge e Dean) avrebbe realizzato l'anno successivo (1971)Fourth(primo loro disco unicamente strumentale)servendosi di numerosi ospiti prevalentemente della scena jazzistica (Lyn Dobson, Nick Evans, Mark Charig, Jimmy Hastings, Roy Babbington, ancora Rab Spall). Nel link sottostante ne parliamo a sufficienza.Dopo Fourth, i Soft Machine avrebbero dovuto continuare senza il grande, ispirato (e sfortunato) Wyatt...
Un altro articolo sul blog Topolàin riguardante la "Morbida Macchina":
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Ricoprì il ruolo di cantante dopo la dipartita di Kevin Ayers: Robert Wyatt, una delle più belle voci del rock progressivo
E' la riproposta in doppio pack - e ovviamente digitalizzata - dei due loro dischi del 1971 e 1972. In totale 14 track. Sono gli album della svolta stilistica che avrebbe portato la "Morbida Macchina" ad avvicinarsi sempre più a una transavanguardia tipo Nucleus (molti dei membri dei Nucleus sarebbero via via entrati a far parte di questa band). Il percorso dei Nucleus e dei Soft Machine è indubbiamente simile: anche i primi approdarono infine a un suono elettronico dalle tinte funky...
Gli Anni Sessanta si stanno congedando. Con Kevin Ayers e Daevid Allen che ormai scorrazzano per conto proprio (l'australiano Allen a quanto pare non può rientrare in Inghilterra per un problema di passaporto e darà vita ai Gong in quel di Parigi) e Robert Wyatt che pensa di abbandonare il gruppo per fondare i Matching Mole (ha già inciso un album in proprio e Fourth sarà l'ultima sua collaborazione con la Machine), è il tastierista Michael Ratledge a prendere in mano le redini. Il resto della band è formata dal suddetto Wyatt - tuttora - ai drums, dal sassofonista Elton Dean e da Hugh Hopper al basso. Questi ultimi due, insieme a Ratledge, costituiranno il nocciolo del gruppo anche in Fifth.
Fourth è il loro primo disco completamente strumentale e si avvale dell'apporto di Marc Charig (tromba), Roy Babbington (contrabasso), Nick Evans (trombone), Jimmy Hastings (flauto, clarinetto) e Alan Skidmore (sax tenore). La virata decisa verso la fusion di rock e jazz - già intravista in Third - si compie qui. Il jazz rock è ovviamente presente nei primi lavori dei Soft Machine (chi non ricorda lo splendido "Out-Bloody-Rageous"?), così come in quelli di tutti gli altri gruppi della scuola di Canterbury, ma lì era contraddistinto da un sound più caldo e impreziosito dalle melodie di Wyatt. Il maggior punto in comune tra Fourth e i lavori precedenti è la razionalità elettronica di Ratledge. La psichedelia primigenea va ricercata tra le righe, e il disco non soddisfa certo i consumatori del progressive ma molto, invece, chi ama Miles Davis, Chick Corea e la musica totale.
Il primo pezzo "Teeth" è una brillante composizione arricchita dagli accenti swing del contrabasso di Babbington, che lascia poi il posto al basso elettrico di Hopper; le cascate pianistiche si alternano con le armonie dei fiati (belle le sfumature del clarinetto di Hastings) e, dopo un furioso "solo" dell'organo di Ratledge, il tutto culmina in un'improvvisazione collettiva. "Fletcher's Blemish" è anch'esso un brano di alta qualità jazzistica in cui l'elegiaco soffio del sax di Elton Dean viene sostituito da un graffiante coro di tutti gli strumenti. "Virtually", suite in quattro parti di Hopper, tradisce la lungaggine e qualche ripetizione di troppo... Insomma, siamo lontani lontanissimi dalle atmosfere di "Moon In June" e "Dedicated To You But You Weren't Listening", anche se non si può non ammirare la virtuosità di tutti.
Un senso di sospensione, di incompiutezza risolutiva, persino nell'ottica di una dimensione cool-jazzistica, si avverte in Fifth. Qui, John Marshall (ex Nucleus ed ex Jack Bruce Band) sostituisce Wyatt alle percussioni, anche se le sessions iniziali videro la partecipazione del batterista di free jazz Phil Howard. Marshall è altrettanto bravo di Wyatt e senza ombra di dubbio molto più "tecnico", ma per molti l'abbandono del folletto e membro fondatore significò l'inizio del declino dei Soft Machine. Anche in Fifth non c'è traccia dei canoni di quel rock psichedelico (per molti versi giocoso e zappiano) della prima ora. Rabbia & Energia sono sì presenti, ma, a conti fatti, Fifth ricalca senza molta fantasia il quarto album (soprattutto in "As If", "All White", "Drop"), di cui può considerarsi un pendant. Nessun timbro esistenziale bensì freddo estetismo, e l'impressione conclusiva è che i musicisti siano alla ricerca di un finale liberatorio che però non arriva.
«I signori di Canterbury. Esordio scoppiettante, secondo disco fondamentale, che getta le basi per il rock di Canterbury, terzo disco monumentale. Lodi infinite a Wyatt, Ayers, Ratledge e soci. Dopo Third e l'ottimo Fourth con l'abbandono di Wyatt, la virata Jazz-Rock che ha prodotto comunque buone cose (Six). Immensi.»
La "Scuola di Canterbury" comprendeva, tra, gli altri, Soft Machine (qui nella foto), Gong, Caravan e Camel
#jazzrock
"Eravamo quattro futuri bandleader e per la maggior parte del tempo eravamo in guerra gli uni con gli altri per questioni di ego: una vera e propria lotta per il potere. Avevamo tutti opinioni molto precise."
(Daevid Allen)
Quando esce Fourth, sembra passato un secolo rispetto all’esordio. Abbiamo constatato che la maturità dei Soft Machine, in Third, è ai vertici, pur avendo perso qualcosa dell'"ingenuità" beateggiante dei primi giorni. Ora sta saltando fuori, decisamente, la personalità di Mike Ratledge, che inizia a svettare sulle idee di Robert Wyatt.
Il batterista dei Soft Machine non ci sarà già più al momento dell'uscita di Fifth... Ratledge cerca di avvicinarsi il più possibile agli album di Miles Davis. Wyatt, sbattuto fuori dalla sua band, fonderà i Matching Mole (che sono la vera continuazione dei Soft Machine dei primi anni). In Fifth suoneranno, al suo posto, Phil Howard sul primo lato e John Marshall sul secondo: due batteristi dallo stile diverso, che dividono il disco in due metà. Questo primo album della band senza Robert Wyatt risulta per certi versi più affine agli atti dei Nucleus, i cui componenti saranno pressoché gli stessi dei nuovi Soft Machine.
La scena di Canterbury è ricca di capolavori...dei Soft Machine mi è piaciuto molto Third ma questo devo ancora ascoltarlo. Complimenti, bella recensione!
Ma che bella recensione! Fourth l'ho ascoltato in parte, Fifth no. E'strano, i Soft Machine mi attirano, ma non riesco a cominciare ad ascoltarli. comunque un'altra rece ci volev, e tu hai colmato benissimo la lacuna. Bravo
Recensire insieme due dischi dei Soft Machine è in linea con la scelta di unire i due dischi in uno, e questa come quella è forse una nota di demerito, franc. D'altronde due dischi incredibilmente diversi, più che matura svolta il 4, piccolo passo falso il 5